sabato 13 agosto 2016

Sono in ritardo su tutto. 
Sono uscito dall'utero e non c'era più nessuno ad aspettarmi. Luce spenta. Serrande abbassate che lame di luce attraversavano comunque. Penombra. L'ostetrica addormentata seduta su una sedia di ferro e formica, la testa appoggiata sulla mano, la mano avvinghiata al bordo della spalliera della sedia, la bocca semichiusa, un respiro profondo, un russare leggero. E poi ferri appoggiati su un carrello, qualcuno con un velo di muco e sangue. Un camice verde appeso al muro e sopra, appoggiata, una cuffia grinzosa. Una piccola palla di carta si spostava rotolando sul pavimento, seguendo traiettorie imposte da una lingua di vento che filtrava da sotto la porta chiusa.
Non so chi avesse tagliato il cordone ombelicale, ma la sensazione che ne ebbi fu di legame col mondo spezzato, di un allontanarmi lento nel vuoto, di orizzonti sempre più piccoli, di un nero che spalancando la bocca, inghiottiva lento ogni parte di me: i piedi, le gambe, il corpo, la testa.
Sono sceso dal tavolo della sala parto come ho potuto. Ho fatto piano, molto piano, per non disturbare nessuno. E ho iniziato il mio cammino. 
La ricerca di una madre.

La prima incontrata era interessata al mio sesso e giocava con quello. Niente di male. Solo che alla fine mi risvegliavo buttato in un angolo, il corpo vuoto, le mani vuote, la testa piena di nulla. Accadde così che un giorno, per un respiro più profondo, inspirai con l'aria anche me stesso e di lei non seppi più nulla.
La seconda invece preferiva i miei pensieri. La divertiva deformarli e poi sputarmeli in faccia. Lo faceva così bene che persi di vista il mio obbiettivo e mi pensai misogino. 
Alla fine venne la terza. Ormai ero già vecchio e stanco. E lei non era interessata a niente. Neanche a sé. Figuriamoci se potesse essere interessata a ciò che ero o alla mia ricerca. Semplicemente mi teneva chiuso in una gabbia. Una piccola scatola con sbarre di ferro leggere che avrei facilmente potuto piegare per fuggire. Un cubo insulso che pendeva dal soffitto di una stanza buia piena di ciarpame. Mi teneva rinchiuso lì per gran parte del tempo. Ma non c'era dietro una volontà costrittiva. Solo vuoti di memoria sempre più espansi. Un ora. Tre giorni. Sei mesi... Alla fine divenni così magro da riuscire a passare attraverso le sbarre. Anzi caddi giù dalla gabbia un giorno che alle sbarre ero appoggiato di schiena. Sul pavimento era ad attendermi un po' di polvere e vecchie bambole rotte. Troppo poco per convincermi a restare. 
E perciò ripresi il cammino.
Il giorno che, distratto, mi è capitato di sbattere contro di te, hai abbassato la testa, mi hai visto e hai pronunciato la parola "perché". Ora cerco di spiegarti che "perché" è una parola che non conosco. A volte ho pensato fosse il vorticare impazzito delle lancette del tempo che avvitandosi nell'aria, la risucchiano così da lasciarmi boccheggiante, la bocca spalancata, le mani intorno al collo, il cuore impazzito che martella lo sterno, la sensazione di panico, lo sguardo disperato rivolto verso l'alto sperando un aiuto dall'esterno che non può arrivare.
Altre volte ho pensato a un meccanismo con carica a molla conficcato nel mio petto; il desiderio di giacere, ma gambe e braccia che rispondono non a me, ma alla molla, si muovono ritmicamente e senza sosta, peraltro costringendo le labbra a un sorriso. E quelle volte pensando con invidia a chi quella molla è capace di chiamarla dio.
Stanco, ho anche concluso che perché vuol dire "sono un profugo perseguitato da me stesso". Ma questa era una cosa troppo stupida per potertela dire.
Così alla fine ti ho detto: perché non esiste, è un vocabolo creato per sbaglio. Ma forse in realtà non ti dissi nulla, semplicemente sorrisi, un sorriso vuoto di tutto, solo semplice contrazione di muscoli facciali, e proseguii oltre.

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