giovedì 25 agosto 2016

Parafrasi di una storia comune - Prologo

Circe, ormai sfiorita, lascia cadere quel che le resta di bello dagli occhi. Inutilmente e per nessuno. E intanto continua svogliati incantesimi sbagliandone i tempi: trasforma porci in porci. Nel mentre giovani naufraghi le sollevano le gonne e si prendono gioco di lei. 
Ulisse, ormai dimentico di se, siede di nuovo ai suoi piedi. Ha capelli radi e bianchi, lo sguardo fisso nel vuoto, un sorriso ebete e un filo di bava alla destra della bocca. Ogni tanto improvvisa un'erezione che presto si spegne in un patetico tentativo di amplesso. 
Penelope pensa di aspettarlo ancora, anche se forse non è così. Siede al suo trono senza più occhi e dirige le orbite vuote verso il mare. Non ha più tele da tessere, i Proci sono morti d'inedia. Strappa invece ciuffi di peli al vecchio cane Argo come fossero petali di margherita: m'ama (lui dice), ma non m'ama, ogni volta che torna è solo per poter ripartire. 

giovedì 18 agosto 2016

Sfoglio la mia anima come fosse una cipolla e piango. Lacrime mute. Lo sciogliersi di un'esistenza gelida. Ho smesso di credere troppo presto. Ormai solo uno sguardo attonito. Io non capisco. Io non.
E tu lascia scorrere i miei occhi. Ti accoglierò comunque senza guardarti. Accarezzerò la tua pelle senza toccarti. La mia mano sa lasciare impronte inutili. 
Nessun calore. 

mercoledì 17 agosto 2016

Primavere. 
Invece degli anni mi attribuiscono primavere. Un controsenso ora che la mia vita è in inverno.

Primavera. 
Oggi ne è arrivata una nuova. L'ho sentita arrivare, l'aria che scalda, la luce che cambia. 
Un cappello per riparare la testa da questa pioggia sottile, le cesoie nella mano che trema lieve. 
La rosa è stata più veloce di me, ha germogli sui rami, ne dovrò uccidere alcuni. Lo faccio per te,le dico, avrai fiori più belli. Amputo e sorrido. Amputo per dare una vita migliore, mi dico. Le piante non  sono animali, mi dico, ma un po' mi dispiace e il sorriso si spegne.

Compagna. 
Quando alzo la testa mi accorgo che chiama il mio nome. Mi guarda con aria indulgente, come si guarda un figlio. Le sue mani tremano più delle mie. Collega i miei anni  e la mia fragilità quando mi prega di rientrare. Scrollo le spalle e distolgo lo sguardo. Scuote la testa e rientra. Un rituale che non è mai cambiato. 
Sorride. 
Sorrido e prego di non sopravviverle.
Le sue mani tremano più delle mie, ma la sua mente è più ferma.

Anni. 
Mi stupisco di quelli passati, ma non per il concetto di tempo, a quello non bado. Mentre perdo il conto dei giorni, recupero ricordi, ricordo di desideri e degli anni spesi per loro, delle mie mani illuse che combattevano. Molti desideri che si sono persi con gli anni, ne ho perso il ricordo. 
Quest'anno ho un desiderio che non è nelle mie mani, ma nelle mani di un figlio. Il mio desiderio più grande è vedere il suo volto quando viene a trovarmi. Di vedere il suo volto e vederlo felice.

Figlio, ti lascio questo mio desiderio. Io ero come te e tu sarai come me. Questo mio desiderio presto sarà il tuo.

martedì 16 agosto 2016

Mi nascondo in foreste di parole. Quando la tua lama cercherà l'essenza, troverà una pelle vuota di serpente. O forse un uomo nudo, seduto, che abbraccia le sue gambe, cercando di nascondere quel sesso duro di cui si vergogna.
Che strano pianeta abbiamo creato. Il pianeta dell'effimero.

Ha volte riesco a vedere l'essenza. Come successe alcuni anni fa. Due donne a ballare tra loro. Troppe rughe sul volto. Troppo trucco sul volto. Troppo colore su vestiti troppo corti. E un ridere violento, più violento della musica oscena.
E troppo desiderio negli occhi. A guardare me, troppo giovane per loro. Desiderio di distruggere. Solo quello. Mentre io pensavo di fuggire. Mentre io pensavo solo a fuggire. Mentre il vento squassava i rami. Incurante del vento che stendeva sotto i miei passi un tappeto spesso di foglie. Incurante del vento che mi rubava lacrime dagli occhi. Fino all'istante in cui le membra divennero burro. Fino a costringermi prono, ad abbracciare la terra.
Fu allora che lo vidi. Sollevando di poco la testa. Sputando fango dalle labbra. Quel l'occhio enorme e giallo. Che mi fissava mentre, lento, saliva sui tetti. Una notte ancora, dopo milioni di giorni.

lunedì 15 agosto 2016

Il dolore per l'abbandono porta a 
vivere un'esperienza metafisica. Si entra in una dimensione dove esiste solo il delirio della mente e il dolore. È un viaggio dal quale si torna trasformati. A volte non si torna affatto. 

Per vivere è necessario credere in qualcosa. Ma qualcosa accade. Se accade, il credo si frantuma. Come una bottiglia di vino che cade. Non resta che bere le schegge di vetro invece di un liquido nero che ottenebra. E ridursi l'anima a brandelli.
Così s'impara che ci sono solo due ruoli possibili: vittima o carnefice. 
Col tempo ho imparato che carnefice non si può essere solo per nascita. Basta lacerarsi l'anima una volta di troppo per perderla. Il cinismo viene da se, una diretta conseguenza.

sabato 13 agosto 2016

Sono in ritardo su tutto. 
Sono uscito dall'utero e non c'era più nessuno ad aspettarmi. Luce spenta. Serrande abbassate che lame di luce attraversavano comunque. Penombra. L'ostetrica addormentata seduta su una sedia di ferro e formica, la testa appoggiata sulla mano, la mano avvinghiata al bordo della spalliera della sedia, la bocca semichiusa, un respiro profondo, un russare leggero. E poi ferri appoggiati su un carrello, qualcuno con un velo di muco e sangue. Un camice verde appeso al muro e sopra, appoggiata, una cuffia grinzosa. Una piccola palla di carta si spostava rotolando sul pavimento, seguendo traiettorie imposte da una lingua di vento che filtrava da sotto la porta chiusa.
Non so chi avesse tagliato il cordone ombelicale, ma la sensazione che ne ebbi fu di legame col mondo spezzato, di un allontanarmi lento nel vuoto, di orizzonti sempre più piccoli, di un nero che spalancando la bocca, inghiottiva lento ogni parte di me: i piedi, le gambe, il corpo, la testa.
Sono sceso dal tavolo della sala parto come ho potuto. Ho fatto piano, molto piano, per non disturbare nessuno. E ho iniziato il mio cammino. 
La ricerca di una madre.

La prima incontrata era interessata al mio sesso e giocava con quello. Niente di male. Solo che alla fine mi risvegliavo buttato in un angolo, il corpo vuoto, le mani vuote, la testa piena di nulla. Accadde così che un giorno, per un respiro più profondo, inspirai con l'aria anche me stesso e di lei non seppi più nulla.
La seconda invece preferiva i miei pensieri. La divertiva deformarli e poi sputarmeli in faccia. Lo faceva così bene che persi di vista il mio obbiettivo e mi pensai misogino. 
Alla fine venne la terza. Ormai ero già vecchio e stanco. E lei non era interessata a niente. Neanche a sé. Figuriamoci se potesse essere interessata a ciò che ero o alla mia ricerca. Semplicemente mi teneva chiuso in una gabbia. Una piccola scatola con sbarre di ferro leggere che avrei facilmente potuto piegare per fuggire. Un cubo insulso che pendeva dal soffitto di una stanza buia piena di ciarpame. Mi teneva rinchiuso lì per gran parte del tempo. Ma non c'era dietro una volontà costrittiva. Solo vuoti di memoria sempre più espansi. Un ora. Tre giorni. Sei mesi... Alla fine divenni così magro da riuscire a passare attraverso le sbarre. Anzi caddi giù dalla gabbia un giorno che alle sbarre ero appoggiato di schiena. Sul pavimento era ad attendermi un po' di polvere e vecchie bambole rotte. Troppo poco per convincermi a restare. 
E perciò ripresi il cammino.
Il giorno che, distratto, mi è capitato di sbattere contro di te, hai abbassato la testa, mi hai visto e hai pronunciato la parola "perché". Ora cerco di spiegarti che "perché" è una parola che non conosco. A volte ho pensato fosse il vorticare impazzito delle lancette del tempo che avvitandosi nell'aria, la risucchiano così da lasciarmi boccheggiante, la bocca spalancata, le mani intorno al collo, il cuore impazzito che martella lo sterno, la sensazione di panico, lo sguardo disperato rivolto verso l'alto sperando un aiuto dall'esterno che non può arrivare.
Altre volte ho pensato a un meccanismo con carica a molla conficcato nel mio petto; il desiderio di giacere, ma gambe e braccia che rispondono non a me, ma alla molla, si muovono ritmicamente e senza sosta, peraltro costringendo le labbra a un sorriso. E quelle volte pensando con invidia a chi quella molla è capace di chiamarla dio.
Stanco, ho anche concluso che perché vuol dire "sono un profugo perseguitato da me stesso". Ma questa era una cosa troppo stupida per potertela dire.
Così alla fine ti ho detto: perché non esiste, è un vocabolo creato per sbaglio. Ma forse in realtà non ti dissi nulla, semplicemente sorrisi, un sorriso vuoto di tutto, solo semplice contrazione di muscoli facciali, e proseguii oltre.

domenica 7 agosto 2016

I numeri non sono parole. Si possono manipolare comunque e avere risultati prevedibili. Spesso li uso per proiezioni cabalistiche. L'illusione di rendere prevedibile un futuro. Eppure il mio tempo è collassato da anni.

Ieri ho di nuovo riconosciuto me stesso bambino camminare assorto lungo un marciapiede. I capelli castani spettinati dai sogni, il treno in corsa per le fughe continue dal mondo.
Procede dondolando a sinistra e a destra. Il sole del tardo pomeriggio di marzo lentamente allunga la sua ombra. Mi piace camminare senza meta verso il sole che tramonta.

Inciso.
Una donna passa accanto al mio io adulto. Mi sfiora. Avrà circa quarant'anni, è un poco più giovane di me. È magra. Ha il volto scavato. Anche il suo cuore lo è. Istintivamente le tendo la mano, ma i suoi occhi sono altrove.

Intanto il bambino che ero è scomparso. Deve aver girato l'angolo in fondo alla strada.
Ma in realtà anche la strada è scomparsa.